sabato 5 marzo 2022

La pistola nel cassetto di Cechov

 


Non mi considero un analista sopraffino. La mia conoscenza si limita alla lettura di qualche libro, allo studio di un po’ di articoli di politica economica e temi sociali. Sono però abbastanza presuntuoso da dire che qualche idea - spero indipendente da pregiudizi – sono capace di farmela. In effetti la presunzione appare più nel fatto di pubblicarla perché a molti potrebbe fregar di meno. Ad ogni modo mi va di dirla.

Assisto con sgomento all’evoluzione dei fatti che riguardano l’invasione – di questo si tratta – dell’Ucraina da parte della vicina Russia. Si tratta di un’invasione ed esiste un aggressore e un aggredito. Su questo non ci sono dubbi. Così come non ci sono dubbi sulle giustificazioni addotte per dare un senso a quell’azione. Sono, appunto, giustificazioni dove questo termine bisogna leggerlo nel senso più largo che questa parola sottintende. Dico giustificazioni per dire pretesti.

Detto ciò, mi capita di inorridire quando alle discussioni in TV che parlano di questo evento, si interpellano generali o esperti di tattiche militari. Nel momento in cui la richiesta che viene da tutti noi è quello di trovare il modo di ritornare ad una situazione di pace, a discutere troviamo i generali. Non è che ce l’ho con i militari: loro fanno il loro mestiere e se li invitano ad una discussione mi sembra anche corretto che ci partecipino e dicano la loro.

Trovo però un controsenso, io lo considero un vero e proprio ossimoro, parlare di pace mettendo attorno al tavolo i militari. Mi chiedo se non sia stato proprio questo il motivo per cui si è arrivati alla situazione che stiamo vivendo. Ripeto: non ce l’ho con i militari ma credo che per poter parlare di pace bisognerebbe fare in modo di crearne i presupposti affinché una tale ipotesi possa prendere corpo. Non è con le armi che si possano generare situazioni di pace. Non ho mai creduto alla frase latina che dichiarava “Si vis pacem, para bellum” (se vuoi la pace prepara la guerra). Le armi servono a preparare una guerra. La pace si prepara con atti di pace. Mi chiedo se alla caduta del muro di Berlino sia stato opportuno (qualcuno l’ha trovato anche logico) ipotizzare un’espansione della NATO spingendo i propri confini sempre più ad oriente. Non sarebbe stato più opportuno pensare ad una scomparsa – o almeno ad una riconfigurazione – di quel patto militare che aveva visto dissolversi una delle ragioni per cui era nato? Insomma: forse nel momento in cui sarebbe stato più opportuno attivare azioni di pace si è fatto invece ricorso ancora ad azioni di guerra ed ecco che si parla di impianti missilistici, di basi militari da installare per occupare nuovi territori. Mi chiedo se agendo in questo modo – evitando quindi di aumentare le installazioni belliche - sarebbe venuta a cader la ragione per cui oggi ci troviamo un uomo del secolo scorso a capo di una nazione che parla con termini antichi di imperi ormai inesistenti e di necessità di difendersi da un destino che la storia gli ha già assegnato. Il problema è che questo personaggio fuori dalla storia ha a disposizione armi – parliamo purtroppo sempre di quello – che possono distruggere il mondo. Armi di cui si è man mano approvvigionato anche con la giustificazione che era necessario per quella nazione parlare di riarmo visto che i dintorni dei suoi territori si stavano attrezzando con sistemi di aggressione. Sistemi che trovavano la loro giustificazione non solo perché quell’impero ormai decaduto non aveva comunque deposto completamente le armi.

Insomma: invece di approfittare del momento storico per intraprendere un nuovo modo di intendere il mondo, si è ritenuto opportuno approvvigionarsi di altre armi.

Appunto: l’ossimoro. Parlo di una nuova pace mondiale e chiamo i generali a deciderla. Ma è il caso?

Come diceva Cechov (ops un autore russo, non vorrei essere bannato per questo) se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari. E qui stiamo parlando del romanzo della vita che ci prende un po’ più da vicino.

sabato 30 dicembre 2017

Il mio nome è Franca …… e salvo vite!


È vero. Lo confermo. A volte l’ho sentita presentarsi in questo modo. Ma subito dopo lei stessa si metteva a ridere per dissolvere quella perplessità che compariva sul volto del suo interlocutore. Insomma: era un modo per prendere in giro e per prendersi in giro. Ma a pensarci bene non è mica falso quello che Franca dice quando parla della sua professione. È veramente quello il suo mestiere.
Quando si lavora in terapia intensiva e soprattutto in una terapia intensiva neonatale è quello che sei chiamato a fare: salvare piccole vite. Anzi a volte succede proprio che sei chiamato a darla la vita. Può succedere che ti trovi in quelle situazioni in cui hai di fronte un cuore che non batte. Che non ha mai battuto dal momento in cui ha lasciato l’utero materno e si è presentato alla vita. O almeno a quello che quel cuore immaginava fosse la vita che invece non potrebbe mai partire senza un aiuto esterno che solo pochi professionisti riescono a dare.
Non è comunque di un autoincensamento la cosa di cui volevo parlarvi. Anzi, conoscendo Franca non sono neanche convinto che a lei faccia piacere quanto stia scrivendo. Non è questione di falsa modestia. Lei si è sempre considerata una persona estremamente competente nel suo lavoro. Ma, appunto, si tratta del suo lavoro. Perché in fondo lei salva vite.
Volevo parlarvi di un salvataggio che a me ha fatto pensare altre cose; ha fatto provare sensazioni forti legate ad un evento straordinario che qualcuno definisce miracolo ma che molto spesso non è altro che applicazione della propria professionalità, della propria esperienza e, perché no, della propria testardaggine.
Non credo nei miracoli e per qualcuno ciò è indice di eresia. Forse sono troppo fatalista ma ho sempre immaginato che le cose capitino. Sono anche sempre stato convinto che possiamo fare molto perché certe situazioni si presentino. Insomma, sta a noi spesso trasformare un’opportunità in un caso reale. Un’opportunità può essere un’occasione e un’occasione può diventare una storia che qualcuno può definire miracolo.
Ma non è di miracoli che volevo parlarvi. Volevo raccontarvi di un insegnamento che ho ricevuto da Franca. Uno dei tanti. Me lo ha regalato poche sere fa.
Cerco di contestualizzare il tutto anche se per giuste ragioni di privacy non potrò essere preciso nell’indicazione di nomi ed eventi che potrebbero intaccare la suscettibilità dei coinvolti.
Sono a casa da solo. Franca è di turno di notte in ospedale. Ricevo un suo Whatsapp. Riporta una foto. È di una bella bambina di pochi mesi che sorride al fotografo. È un bel sorriso, pieno di vita: insomma una foto che ispira felicità. L’accompagna un messaggio: “Questa è la XXX!! Quella bimba che ho rianimato x 16 minuti. Davvero commovente”. Mi sono ricordato e mi sono commosso anch’io. La storia di XXX me la ricordavo bene. Mi sono ricordato quando Franca mi aveva chiamato al telefono quel giorno in cui mi aveva parlato di questo parto difficile e di questa bambina nata senza battito. Senza battito significa semplicemente una cosa: senza vita! È in casi come quello che devi sapere cosa dover fare per tentare l’impossibile o almeno quello che a molte persone appare come impossibile. Intervenire. Intervenire subito e mettere in pratica tutta la tua esperienza, quella che ti sei fatta in tanti anni di lavoro, che ti permette di affrontare situazioni adrenaliniche come queste e che possono avere solo due soluzioni molto diverse tra loro: vivere o morire. Sedici minuti possono sembrare pochi. In fondo non sono nemmeno mille secondi. In mille secondi può non succedere nulla ma per qualcuno può significare passare dalla morte alla vita. Mi immagino cosa possa essere passato nella testa di Franca in quei mille secondi: “Ce la fa?”, “Non ce la fa?”, “E cosa potrà venirne fuori? Con quali conseguenze per la sua vita futura?”. Oppure immaginarla estremamente concentrata e determinata a far di nuovo battere quel cuore che non dava segni di voler fare il suo lavoro.
Conoscendola la immagino sempre estremamente cosciente, sicura di quello che stava facendo. Tanto sicura che non si è fermata quando il tempo passava e non riceveva alcun riscontro ai propri sforzi. Non è prassi usuale tentare una rianimazione per sedici minuti su un neonato. A volte ci si arrende prima. Lei invece ha insistito. E ha avuto ragione. Tanto che dopo qualche mese ha ricevuto quella foto dove XXX sorride alla vita e si è potuta sentire orgogliosa del suo lavoro. Come tante altre volte.
Questa potrebbe essere una di quelle storie che si trovano nelle pagine interne di qualche giornale oppure pubblicata su qualche sito web di cronaca locale. Una di quelle storie con il titolo inneggiante al miracolo: “Neonata strappata alla morte!”.
Ma il bello è proprio questo. Non c’è stato alcun titolo. Perché l’insegnamento non era cosa fare per avere un articolo con la tua foto su un giornale. La storia è in quei mille secondi. Quei secondi in cui compi il tuo lavoro e metti a frutto anni e anni di studio, di insegnamenti – dati e ricevuti –, di esercizi, di pratica. Ma soprattutto secondi in cui si deve essere estremamente consapevoli di quello che si è, di quello che si fa e di quello che può succedere. Pochi secondi che sono il frutto di una vita. La testardaggine insomma può anche essere un pregio ma solo se è supportata da una estrema consapevolezza.
Il messaggio che ho ricevuto non è un semplice “volere è potere” in cui non ho mai creduto. Volere è potere solo se si supporta quella voglia con azioni esplicite che favoriscano la trasformazione della nostra volontà nella realizzazione dei propri sogni. Per volere delle cose bisogna soprattutto fare. E a volte quel fare è frutto di anni di lavoro che può essere anche duro. Non basta quindi scrivere sul proprio profilo FacebookNever give up” e aspettare che le cose succedano.
Come ho detto: le cose capitano ma per farle succedere bisogna prepararsi con il lavoro e con la dedizione. Dopo viene la testardaggine, che aiuta ma da sola non serve a molto.
Mi sembra un bell’augurio per questo 2018 che sta arrivando.
Un insegnamento di cui Franca non ha bisogno perché in fondo è il suo lavoro: lei salva vite!

Buon anno a tutti.

sabato 31 dicembre 2016

Ora e sempre ....... RESILIENZA!


L'assonanza è indicativa: esiste una connessione tra la parola Resilienza e Resistenza. Ma non hanno lo stesso significato. Resilienza vuol dire qualcosa di un po' diverso dalla semplice Resistenza, che poi non è detto che questa sia una cosa semplice: a volte non è affatto semplice resistere.
Quando si parla di resilienza si fa riferimento alla capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. In psicologia si parla di resilienza  intendendo la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.
Sebbene in questo caso sto ovviamente facendo riferimento al secondo significato è il primo quello che rende meglio il concetto che voglio esprimere.
Quest'anno scrivo il mio post di fine anno con sentimenti un po' diversi da quelli che mi hanno accompagnato nelle ultime occasioni.
Posso dire che quest'anno di cose positive ne sono successe. Provo ad elencare in ordine di importanza:
  • sono riuscito a cambiare lavoro e, chi mi conosce lo sa, per me questa rappresentava una necessità. Il fatto poi di aver trovato il nuovo ambiente lavorativo molto confortevole (molti colleghi fantastici) è una cosa che mi dà tanta energia
  • sono riuscito, dopo tati anni in cui ci avevo provato, ad effettuare il mio viaggio in Giappone e anche questo era un mio grandissimo desiderio. Sono felice di averlo fatto.
  • una mia storia, anzi in realtà ben due, sono state raccontate alla radio: addirittura sulla RAI. Le mie storie (Il mio primo autostop e Do you know Anna Salasana?) hanno rappresentato un gran salto di qualità del mio essere scrittore (in realtà posso al massimo essere definito un cantastorie) e chissà che nei prossimi anni non si possa ambire a qualche cosa di più (ora comincio a montarmi la testa)
  • ho fatto un po' di incontri interessanti: ho rivisto Oldani alla presentazione del suo ultimo libro e ho trovato un pezzetto di me nella scelta del titolo; ho scambiato due chiacchiere con Federico Rampini, che è il giornalista più interessante che io conosca; ho avuto il piacere di salutare più di una volta i fratelli Servillo dopo alcuni loro spettacoli tanto che ormai sono diventato un loro "cugino"
  • ho ritrovato i miei compagni di classe del liceo e, siccome con alcuni avevo perso ogni contatto, la cosa mi ha fatto molto piacere: ora c'è da organizzare una rimpatriata e queste cose mi eccitano
  • ho messo le basi per alcuni nuovi progetti che spero di realizzare nel nuovo anno. Di questi non ne parlo sempre per questioni di scaramanzia. 
Poi ovviamente sono anche capitate cose brutte, alcune molto brutte, ma, sarà per una questione di scaramanzia, non voglio parlarne.
E poi stavamo parlando di resilienza.
A tal proposito posso dire che i miei ultimi anni sono stati abbastanza duri. La società per cui lavoravo è fallita nel 2013. Ho così perso la mia qualifica di dirigente e mi son dovuto adattare a condizioni un po' diverse da quelle a cui ero abituato (nulla comunque a che vedere con ciò che alcuni miei ex colleghi hanno dovuto sopportare: hanno perso il loro posto di lavoro). A quell'evento sono seguiti anni in cui la mia considerazione in azienda è scesa a livelli bassissimi e, costituendo il lavoro una parte importante della nostra vita, la qualità di questa non è stata delle migliori. C'è voluto lo spirito di resilienza che mi ha aiutato e la presenza di una persona al mio fianco che mi ha sempre aiutato (grazie Franca) e mi ha fatto cercare quella fiducia nelle mie qualità che mi ha dato la forza di analizzare, adattarmi e soprattutto guardare sempre avanti senza mollare un attimo: sapevo che prima o poi i sogni devono essere realizzati, altrimenti stiamo parlando di miraggi!.
Qui trovate comunque un po' di immagini che hanno caratterizzato quest'anno. Ogni volta che lo guardo mi ricordo di altre cose che mi sono capitate e che non ho inserito (i miei amici del MIP ad esempio, oppure le mie lezioni alla Scuola Holden di Torino...). In ogni caso c'è tanta roba.


Ecco ora so che grazie a quella capacità (la resilienza) posso pensare al futuro con maggior fiducia. Anzi, come detto prima, sto già pensando a nuovi progetti e spero proprio che nel nuovo anno si abbia occasione di portarli avanti. Perché i sogni non devono mai mancare! 

martedì 23 agosto 2016

Sono un orfano felice

Mi sono sempre chiesto se alla mia età possa definirmi un orfano. Quando si hanno più di cinquant’anni è abbastanza frequente trovare persone che non hanno più in vita i loro genitori. Orfani si chiamano i ragazzini di dieci anni o anche meno che, molto spesso a causa di qualche disgrazia, si ritrovano soli al mondo e devono affidare la loro vita alla clemenza di qualche parente per non vedersi assegnati alle cure di un istituto – si chiamano proprio orfanatrofi -  con il rischio di iniziare un percorso di vita che molto spesso diventa un tunnel dal quale non si ha più la possibilità di uscire per ritrovare la luce.

La fortuna mi ha concesso di avere avuto i miei genitori ancora in vita – e soprattutto in salute – quando ho compiuto i miei quarant’anni. L’avevo sempre considerato un augurio quello di poter salutare insieme ai miei genitori il sorgere del nuovo millennio (sono del ’60 e quindi ho compiuto quarant’anni nel 2000). Così è stato e sono grato, non so a chi, ma forse semplicemente alla vita, di avermi concesso il privilegio di aver festeggiato il terzo millennio in loro compagnia. Tra i miei cugini sono stato tra i più fortunati perché ho dovuto sopportare il dolore della perdita di un genitore più tardi degli altri. Quando mi è successo, loro, parlo dei miei parenti prossimi, avevano già dovuto affrontare almeno una volta quell’evento. L’ho sempre considerata, con un po’ di senso di colpa, una fortuna. Poi nel giro di qualche anno tutto è cambiato e mi sono ritrovato, insieme alle mie sorelle, senza genitori: un orfano, appunto. Qualcuno, con una visione un po’ più cinica delle cose, potrebbe dire che ci si sente orfani nel momento in cui sai di non avere più barriere fisiche, vale a dire altre persone, che si frappongono tra te e l’imponderabile destino che si prospetta ad ognuno di noi. Ci si sente soli contro la morte: insomma, sai di essere il prossimo della lista. Non credo si tratti solo di quello, anzi: ne sono sicuro! Non è semplicemente un paravento che cade quello che viene a mancare, anche se è un paravento che ti fa apparire la tua fine più lontana, ma è tutto il resto che viene a scomparire. Sono le tue radici, le tue origini, il tuo essere, per cui necessariamente ti senti più solo. In questi giorni di Olimpiadi gira un famoso spot pubblicitario che parla del rapporto madre e figlio che, quando lo guardi, se riesci a non farti scappare la lacrima, vuol dire proprio che non hai cuore. Senza voler eccedere al sentimentalismo di quel video - fatto, tra l’altro, molto bene – è proprio di quelle emozioni che sto parlando. Il sorriso dei tuoi genitori quando sono lì il tuo primo giorno di scuola e poi ritrovarli in quello della tua laurea oppure il giorno del tuo matrimonio, o in quello in cui li hai fatti diventare nonni, il giorno in cui riuscivi a pedalare da solo in bicicletta, o arrivavi a nuoto alla prima boa del lido, oppure quando soffiavi sulle candeline dei tuoi compleanni. Ho sempre ritenuto che le scelte più importanti della mia vita, io le abbia prese in completa autonomia. Per quanto abbia potuto ho sempre cercato di costruirmi da solo la mia vita. Nello stesso tempo sono anche super convinto che dietro ogni scelta ci siano sempre stati loro e i valori che mi hanno insegnato. Non si trattava di farsi imporre delle loro decisioni, ma non posso immaginare che quel mio essere determinato nel voler arrivare ad ogni costo agli obiettivi che mi sono man mano prefisso nella vita non fosse dovuto all’educazione che loro mi hanno dato. La certezza che quei valori restino impressi nel tuo carattere anche quando i tuoi genitori non ci sono più è un po’ una consolazione che serve a rappacificarti con la vita nei momenti in cui la tristezza ti pervade per la loro mancanza. Così come a volte può funzionare da balsamo ristoratore credere nell’immortalità dell’anima che ci fa immaginare funzioni protettrici sulle nostre azioni esercitate dai nostri parenti non più in vita che ci garantiscono una vita terrena più sicura. La mia mente – troppo razionale per certi aspetti – non mi consente di cedere alle lusinghe della fede per cui mi consolo immaginandomi la loro felicità qualora fossero stati presenti a qualche evento da me vissuto dopo la loro scomparsa. L’immagine di vedermeli lì presenti con il loro sorriso per manifestare la loro approvazione, mi fa sentire felice e meno solo. Di certo non mi fa sentire in colpa il non averli fisicamente con me. E’ la vita che ha predisposto quell’evenienza e su quello io non posso farci nulla. So di essere stato un figlio che non ha creato grossi problemi e che ha sempre agito avendo massimo rispetto nei confronti dei propri genitori. So che loro questo l’hanno apprezzato. Sarò anche orfano, ma sono un orfano felice.

lunedì 11 luglio 2016

La mia lettera al Sindaco di Milano Beppe Sala: una questione di grammatica


La scorsa settimana ho inviato la lettera che trovate sotto al nuovo Sindaco della Città di Milano. Volevo porre una questione di impostazione di rapporti.
La buona notizia è che il Sindaco mi ha fatto subito chiamare dal Comando dei Vigili. Quella un po' meno buona è che la telefonata si è risolta in una formalizzazione di scuse, ma senza che a questa sia seguita qualche azione più interessante (che era quello che mi premeva di più).
La multa comunque devo pagarla.
Buona lettura.

domenica 26 giugno 2016

AUTOSTOP: la mia storia a Pascal su RAI Radio2

Pascal - Autostop: puntata del 23 Giugno 2016
 
Capita che hai dieci anni e fai un'esperienza che sai già che ti ricorderai per tutta la vita. Una di quelle cose che immagi di poter raccontare un giorno ai tuoi figli dicendogli che quello è stato il momento in cui ti sei sentito grande. Non un eroe, ci mancherebbe, ma semplicemente una persona adulta. Quando cioè quelli che ti stanno intorno cominciano ad avere una considerazione diversa della tua persona. Ecco: diventi una persona e non sei più un bambino.
Pascal RAI Radio 2
Poi capita che figli non ne hai e allora la tua storia la racconti alla radio.
Succede così che una sera di ritorno dal mare in macchina ascolto alla radio una puntata del bellissimo programma di Matteo Caccia, una radio importante visto che si tratta della radio nazionale, la Rai, e il canale è Radio2. Il programma si chiama Pascal e ogni sera in cui va in onda viene raccontata una storia scelta dagli autori tra quelle che sono inviate dagli ascoltatori alla redazione.
Decido che Pascal avrà la mia storia e poi si vedrà.
E' così che una sera mi metto al computer e in un paio d'ore la bozza è pronta. Franca mi dà una mano a rivederla, a limarla ma sostanzialmente la bozza va già molto bene. Secondo me funziona.
Il 17 Marzo mi collego al sito della trasmissione e invio la mia storia. C'è scritto che gli autori non rispondono a tutte, ma che comunque il racconto potrebbe essere scelto anche a distanza di mesi dall'invio. In quel caso sarò ricontattato. I mesi passano e la speranza che la storia venga scelta un po' si affievolisce eppure son ancora convinto che ci starebbe bene all'interno di quel programma. Succede che nello stesso periodo ho organizzato un viaggio in Giappone (sono partito i primi di Aprile) e poi al ritorno ho deciso di lasciare il mio lavoro per cercare un'altra opportunità e queste cose mi distraggono tantissimo dalle mie velleità di autore radiofonico per cui finisco per non pensarci tanto (ogni tanto però mi dico: chissà se .....).
Il 15 Giugno inizio la mia nuova esperienza lavorativa: nuovo lavoro, nuovo ruolo e nuova vita. Le novità non sono finite. Il 20 Giugno ricevo una telefonata sul mio cellulare. Si tratta di un numero che non conosco e quando rispondo scopro che si tratta di Giulia Laura della redazione di Pascal di Rai Radio2 che mi dice che la mia storia è stata scelta e che andrà in onda il Giovedì successivo: il 23 Giugno. Il giorno dopo è il mio compleanno e posso dire che questo mese in quanto ad emozioni .... mi sono bastate.
Ci diamo appuntamento per il giorno dopo per un'intervista telefonica da cui saranno estratti alcune pezzetti che saranno inseriti nella diretta. Dopo l'intervista ci diamo appuntamento per la diretta del 23. Si va in onda. Cuore a mille ma felicità alle stelle.
Facevo bene a dire che si trattava di una bella storia.
Matteo Caccia 2 - Radio 2Bella e vera, nessuna parte romanzata. Si tratta di puro storytelling che secondo me deve essere assolutamente autentico (altrimenti si raccontano favole e non storie).

Ad ogni modo sotto trovate la storia originale (un po' più lunga di quella raccontata) ma qui trovate il link per poter andare sul sito di Pascal a leggere e soprattutto ascoltare (Matteo Caccia è un maestro) la mia storia alla Rai.
Buona lettura e soprattutto buon ascolto. 

PS: all'epoca della stesura in Giappone non c'ero ancora andato. Ma poi ci sono stato davvero. Qui trovate l'altra storia.
 

mercoledì 27 aprile 2016

Il Paese dei ciliegi

L’ho sognato per più di tre anni. Anzi, devo portare la memoria ancora più lontana se voglio pensare alla prima volta che decisi di voler andare in Giappone. L’oriente mi ha sempre affascinato e dopo essere stato due volte in Cina e due volte anche in India, il Giappone era il posto che volevo conoscere.
Mi interessava tutto di quel paese: innanzitutto la storia, ma anche la gente, il cibo, l’eleganza e i colori.
Non che tutto ciò che arrivasse dal Giappone mi piacesse a prescindere. Considero i giapponesi tra i popoli più razzisti del mondo. Se avete letto Shogun di James Clavell un’idea ve la sarete fatta. Il fatto di essere un’isola circondata dal Pacifico lì fa sentire probabilmente diversi dagli altri e questo ha le sue conseguenze. Dopotutto se si pensa che un’isola poco più grande dell’Italia (377.944 km² contro i 301.340 km² della nostra penisola) non sia mai stata conquistata da popoli che risultavano di gran lunga più numerosi e che anzi in alcuni periodi sia addirittura stato il Giappone a tenere sotto scacco la Cina
(ricorderete il bellissimo film di Bertolucci, l’Ultimo Imperatore) si capisce perché quel popolo debba sentirsi un po’ diverso dagli altri. Ad ogni modo non era questa peculiarità che mi interessava e devo dire che il mio contatto con i giapponesi è stato molto positivo. Li ho trovati abbastanza ospitali anche se il limite della lingua pesa molto nei rapporti relazionali e i giapponesi non sono famosi per la conoscenza dell’inglese.
Essere in Giappone per la fioritura dei ciliegi me l’ero imposto e il 3 Aprile sono partito insieme a Franca e ad altri due amici con la speranza che il tempo non facesse brutti scherzi. Scommessa vinta non senza un po’ di patema. In questi ultimi anni le stagioni sono realmente impazzite e prevedere a Novembre, quando ho comprato i biglietti dell’aereo, come sarebbe stato il tempo ad Aprile e sperare che quella sarebbe stata la miglior settimana per potere vedere i ciliegi in fiore non era semplice.
Sono stato però fortunato e abbiamo colto, a detta di tutti, la settimana giusta. Il tempo è stato dalla nostra, a parte una giornata in cui abbiamo preso una pioggia pazzesca. E’ stato uno spettacolo. La fioritura dei ciliegi in Giappone non è semplicemente un evento meteorologico: è una festa vera che coinvolge tutti i giapponesi. Ho visto migliaia e migliaia di persone che letteralmente impazziscono per questa cosa e bisogna dire che ne hanno ben ragione. Non stiamo infatti parlando di qualche albero che offre il suo sfoggio di fiori bianchi o rosa in qualche campagna come ci capita di vedere ogni tanto in Italia quando attraversiamo all’inizio di primavera una bella campagna o qualche territorio ai lati di un’autostrada. In Giappone quando si parla di fioritura dei ciliegi si parla di interi parchi che offrono uno spettacolo meraviglioso, di giardini che lasciano senza parole, di un popolo che partecipa a questa festa con pic-nic organizzati nei parchi anche di grandi città. Un evento che viene seguito giorno per giorno dai telegiornali nazionali che aggiornano i telespettatori sullo stato della fioritura in tutta la nazione. Addirittura mi è capitato nell’hall dell’albergo di Kyoto di trovare un manifesto che veniva aggiornato tutti i giorni con lo stato di fioritura degli alberi dei parchi cittadini. Ho partecipato a Kanazawa alla visita notturna nel castello per ammirare i ciliegi illuminati come in un set cinematografico insieme ad altre migliaia di persone e vi assicuro che l’effetto era grandioso.
Popolo strano comunque quello giapponese ossessionato dalla precisione e dal rispetto per gli altri tanto da ricadere nei più classici dei luoghi comuni. In realtà è tutto vero: un giapponese si inchinerà davanti a tutto e cercherà sempre di accompagnare qualsiasi discorso con un cenno del capo e non vi toccherà mai con le mani anche se le userà tantissimo nei suoi discorsi. Mi è capitato di postare un filmato che ho fatto su di un treno dove si vede un incaricato delle ferrovie che saluta e ringrazia con un inchino tutte le persone che scendono dal treno. Tutte le persone, una per una! Inoltre ho sempre visto che gli addetti alla pulizia del treno quando questo arriva in stazione si fermano e si inchinano per salutare il suo arrivo. Significa che tutti gli addetti sono sull’attenti con la testa piegata da quando il treno si presenta in stazione fino a che non si ferma. Altra cosa che mi ha lasciato stupito è il fatto che i controllori che passano nei vari vagoni del treno ogni volta che passano da una carrozza all’altra, si girano verso i passeggeri della carrozza che stanno lasciando, si inchinano e poi si girano per uscire. Se passano dieci volte per dieci volte, si girano, si inchinano, si rigirano ed escono. E’ inoltre significativo notare che sebbene usino molto le mani per gesticolare, non indirizzeranno mai un dito verso di voi. Altro luogo comune di cui ho verificato la veridicità è la famosa scena di Lost in traslation nella quale Bill Murray resta sconcertato dalla traduzione della sua interprete che, nella scena della registrazione dello spot pubblicitario a Tokyo, dopo aver ascoltato il regista giapponese che parla per qualche minuto in giapponese traduce con un semplice: “With intensity ...”. E’ proprio vero: in Giappone tutti parlano e dicono tante cose. Se provi a tradurle ….. il tutto si ridurrà a qualche semplice informazione. Ho ascoltato autisti di autobus oppure controllori di treni tenere dei veri e propri comizi in giapponese all’avvicinarsi di una fermata. Ebbene quando si passava alla traduzione in inglese il tutto veniva condensato in una frase del tipo: “stiamo arrivando nella stazione di XXXX. Non dimenticate i vostri bagagli”. Semplicemente comico!
Inoltre ho fatto un’altra scoperta: quando ho studiato al MIP il metodo Kanban che si riferisce a come viene organizzata la movimentazione dei materiali all’interno di un’industria, mi ero immaginato che tale metodo fosse stato inventato da Toyota e che quell’azienda avesse poi diffuso tale pratica nel mondo. Ho scoperto che non si tratta di un metodo che viene applicato solo nell’azienda automobilistica. Il Giappone è organizzato in questo modo. Tutto segue un flusso preciso e preordinato che fa molto uso di tagliandi, cartoncini da prendere o consegnare. Lo applicano in tutto. Quando mi sono trovato a dover cambiare un po’ di moneta, un addetto al cambio mi ha prima di tutto consegnato un tagliandino con il mio numero sebbene io fossi l’unica persona presente nell’ufficio e poi me lo ha richiesto solo dieci secondi dopo che aveva espletato alcune pratiche di controllo per darmi i miei soldi (pratica che hanno comunque gestito in due persone). Altra cosa che mi ha sorpreso in effetti è proprio questa incredibile burocrazia che utilizzano dappertutto. Scambi di fogli, timbri a più non posso, innumerevoli controlli incrociati: tutto ciò ha l’effetto di ridurre al minimo gli errori ma aumenta sia i tempi che la manodopera richiesta. C’è da dire che questo provoca il fatto che in Giappone praticamente lavorano tutti (forse a fare anche cose inutili) e fino a che se lo possono permettere va bene così. Devo dire che mi aspettavo un paese che facesse molto più uso della tecnologia, ma l’agenzia che ho usato mi ha detto, ad esempio, che fino a qualche anno fa utilizzavano ancora il fax come principale metodo di comunicazione. In ogni caso è un paese che funziona. Hanno una particolare predisposizione all’autolesionismo imponendosi cose che per noi sarebbero inconcepibili: nelle diverse città che ho visitato ho trovato pochissimi cestini. A Tokyo sono praticamente introvabili sebbene sia una città abitata da ben dodici milioni di persone, ma ho contato in dieci giorni non più di tre cicche per terra e nessuna cartaccia anche nei vicoli meno trafficati. Questo significa che ognuno si preoccupa per proprio conto dell’immondizia che produce: semplicemente se la portano a casa. Se non l’avessi sentito con le mie orecchie non ci avrei creduto e l’avrei etichettata come la solita barzelletta. Quando abbiamo visitato il museo a Nara abbiamo visto un custode che avvisava un turista che non poteva accedere alle sale perché aveva una lattina di una bibita. Alla domanda su come avrebbe potuto liberarsene gli è stato detto – senza ridere – che avrebbe trovato un cestino nella stazione ferroviaria distante, appena J, due chilometri.
In ogni caso un paese bellissimo per tanti aspetti. Visitare la casa di un samurai e passare qualche minuto nel suo giardino ed immedesimarsi nelle vesti del proprietario quando passava lì i suoi pomeriggi nella pace assoluta che poteva esserci nel 1600, ti fa capire come mai quel popolo desse priorità alle esigenze dello spirito più che a quelle del corpo.
Portati all’autolesionismo dicevo. E’ tipico vedere la notte il salaryman (viene chiamato così) che esce dall’ufficio dove ha passato le sue dodici e più ore di lavoro. Forse, per quello che ho detto prima, non saranno state ore tutte proficue: ho l’impressione che la produttività sia un parametro non tenuto in gran conto in Giappone, però è stato lì praticamente tutto il giorno e ci ritornerà sicuramente il giorno dopo di buon ora. E’ il motivo per cui la maggior parte dei mariti non gode di nessuna vita familiare, mangia spesso fuori casa e non vede mai i propri figli.
E’ un paese così.
Sayonara Giappone.

PS: per chi volesse vedere un piccolo estratto delle foto (ne abbiamo più di 2.500) può cliccare qui