martedì 23 agosto 2016

Sono un orfano felice

Mi sono sempre chiesto se alla mia età possa definirmi un orfano. Quando si hanno più di cinquant’anni è abbastanza frequente trovare persone che non hanno più in vita i loro genitori. Orfani si chiamano i ragazzini di dieci anni o anche meno che, molto spesso a causa di qualche disgrazia, si ritrovano soli al mondo e devono affidare la loro vita alla clemenza di qualche parente per non vedersi assegnati alle cure di un istituto – si chiamano proprio orfanatrofi -  con il rischio di iniziare un percorso di vita che molto spesso diventa un tunnel dal quale non si ha più la possibilità di uscire per ritrovare la luce.

La fortuna mi ha concesso di avere avuto i miei genitori ancora in vita – e soprattutto in salute – quando ho compiuto i miei quarant’anni. L’avevo sempre considerato un augurio quello di poter salutare insieme ai miei genitori il sorgere del nuovo millennio (sono del ’60 e quindi ho compiuto quarant’anni nel 2000). Così è stato e sono grato, non so a chi, ma forse semplicemente alla vita, di avermi concesso il privilegio di aver festeggiato il terzo millennio in loro compagnia. Tra i miei cugini sono stato tra i più fortunati perché ho dovuto sopportare il dolore della perdita di un genitore più tardi degli altri. Quando mi è successo, loro, parlo dei miei parenti prossimi, avevano già dovuto affrontare almeno una volta quell’evento. L’ho sempre considerata, con un po’ di senso di colpa, una fortuna. Poi nel giro di qualche anno tutto è cambiato e mi sono ritrovato, insieme alle mie sorelle, senza genitori: un orfano, appunto. Qualcuno, con una visione un po’ più cinica delle cose, potrebbe dire che ci si sente orfani nel momento in cui sai di non avere più barriere fisiche, vale a dire altre persone, che si frappongono tra te e l’imponderabile destino che si prospetta ad ognuno di noi. Ci si sente soli contro la morte: insomma, sai di essere il prossimo della lista. Non credo si tratti solo di quello, anzi: ne sono sicuro! Non è semplicemente un paravento che cade quello che viene a mancare, anche se è un paravento che ti fa apparire la tua fine più lontana, ma è tutto il resto che viene a scomparire. Sono le tue radici, le tue origini, il tuo essere, per cui necessariamente ti senti più solo. In questi giorni di Olimpiadi gira un famoso spot pubblicitario che parla del rapporto madre e figlio che, quando lo guardi, se riesci a non farti scappare la lacrima, vuol dire proprio che non hai cuore. Senza voler eccedere al sentimentalismo di quel video - fatto, tra l’altro, molto bene – è proprio di quelle emozioni che sto parlando. Il sorriso dei tuoi genitori quando sono lì il tuo primo giorno di scuola e poi ritrovarli in quello della tua laurea oppure il giorno del tuo matrimonio, o in quello in cui li hai fatti diventare nonni, il giorno in cui riuscivi a pedalare da solo in bicicletta, o arrivavi a nuoto alla prima boa del lido, oppure quando soffiavi sulle candeline dei tuoi compleanni. Ho sempre ritenuto che le scelte più importanti della mia vita, io le abbia prese in completa autonomia. Per quanto abbia potuto ho sempre cercato di costruirmi da solo la mia vita. Nello stesso tempo sono anche super convinto che dietro ogni scelta ci siano sempre stati loro e i valori che mi hanno insegnato. Non si trattava di farsi imporre delle loro decisioni, ma non posso immaginare che quel mio essere determinato nel voler arrivare ad ogni costo agli obiettivi che mi sono man mano prefisso nella vita non fosse dovuto all’educazione che loro mi hanno dato. La certezza che quei valori restino impressi nel tuo carattere anche quando i tuoi genitori non ci sono più è un po’ una consolazione che serve a rappacificarti con la vita nei momenti in cui la tristezza ti pervade per la loro mancanza. Così come a volte può funzionare da balsamo ristoratore credere nell’immortalità dell’anima che ci fa immaginare funzioni protettrici sulle nostre azioni esercitate dai nostri parenti non più in vita che ci garantiscono una vita terrena più sicura. La mia mente – troppo razionale per certi aspetti – non mi consente di cedere alle lusinghe della fede per cui mi consolo immaginandomi la loro felicità qualora fossero stati presenti a qualche evento da me vissuto dopo la loro scomparsa. L’immagine di vedermeli lì presenti con il loro sorriso per manifestare la loro approvazione, mi fa sentire felice e meno solo. Di certo non mi fa sentire in colpa il non averli fisicamente con me. E’ la vita che ha predisposto quell’evenienza e su quello io non posso farci nulla. So di essere stato un figlio che non ha creato grossi problemi e che ha sempre agito avendo massimo rispetto nei confronti dei propri genitori. So che loro questo l’hanno apprezzato. Sarò anche orfano, ma sono un orfano felice.

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