mercoledì 27 aprile 2016

Il Paese dei ciliegi

L’ho sognato per più di tre anni. Anzi, devo portare la memoria ancora più lontana se voglio pensare alla prima volta che decisi di voler andare in Giappone. L’oriente mi ha sempre affascinato e dopo essere stato due volte in Cina e due volte anche in India, il Giappone era il posto che volevo conoscere.
Mi interessava tutto di quel paese: innanzitutto la storia, ma anche la gente, il cibo, l’eleganza e i colori.
Non che tutto ciò che arrivasse dal Giappone mi piacesse a prescindere. Considero i giapponesi tra i popoli più razzisti del mondo. Se avete letto Shogun di James Clavell un’idea ve la sarete fatta. Il fatto di essere un’isola circondata dal Pacifico lì fa sentire probabilmente diversi dagli altri e questo ha le sue conseguenze. Dopotutto se si pensa che un’isola poco più grande dell’Italia (377.944 km² contro i 301.340 km² della nostra penisola) non sia mai stata conquistata da popoli che risultavano di gran lunga più numerosi e che anzi in alcuni periodi sia addirittura stato il Giappone a tenere sotto scacco la Cina
(ricorderete il bellissimo film di Bertolucci, l’Ultimo Imperatore) si capisce perché quel popolo debba sentirsi un po’ diverso dagli altri. Ad ogni modo non era questa peculiarità che mi interessava e devo dire che il mio contatto con i giapponesi è stato molto positivo. Li ho trovati abbastanza ospitali anche se il limite della lingua pesa molto nei rapporti relazionali e i giapponesi non sono famosi per la conoscenza dell’inglese.
Essere in Giappone per la fioritura dei ciliegi me l’ero imposto e il 3 Aprile sono partito insieme a Franca e ad altri due amici con la speranza che il tempo non facesse brutti scherzi. Scommessa vinta non senza un po’ di patema. In questi ultimi anni le stagioni sono realmente impazzite e prevedere a Novembre, quando ho comprato i biglietti dell’aereo, come sarebbe stato il tempo ad Aprile e sperare che quella sarebbe stata la miglior settimana per potere vedere i ciliegi in fiore non era semplice.
Sono stato però fortunato e abbiamo colto, a detta di tutti, la settimana giusta. Il tempo è stato dalla nostra, a parte una giornata in cui abbiamo preso una pioggia pazzesca. E’ stato uno spettacolo. La fioritura dei ciliegi in Giappone non è semplicemente un evento meteorologico: è una festa vera che coinvolge tutti i giapponesi. Ho visto migliaia e migliaia di persone che letteralmente impazziscono per questa cosa e bisogna dire che ne hanno ben ragione. Non stiamo infatti parlando di qualche albero che offre il suo sfoggio di fiori bianchi o rosa in qualche campagna come ci capita di vedere ogni tanto in Italia quando attraversiamo all’inizio di primavera una bella campagna o qualche territorio ai lati di un’autostrada. In Giappone quando si parla di fioritura dei ciliegi si parla di interi parchi che offrono uno spettacolo meraviglioso, di giardini che lasciano senza parole, di un popolo che partecipa a questa festa con pic-nic organizzati nei parchi anche di grandi città. Un evento che viene seguito giorno per giorno dai telegiornali nazionali che aggiornano i telespettatori sullo stato della fioritura in tutta la nazione. Addirittura mi è capitato nell’hall dell’albergo di Kyoto di trovare un manifesto che veniva aggiornato tutti i giorni con lo stato di fioritura degli alberi dei parchi cittadini. Ho partecipato a Kanazawa alla visita notturna nel castello per ammirare i ciliegi illuminati come in un set cinematografico insieme ad altre migliaia di persone e vi assicuro che l’effetto era grandioso.
Popolo strano comunque quello giapponese ossessionato dalla precisione e dal rispetto per gli altri tanto da ricadere nei più classici dei luoghi comuni. In realtà è tutto vero: un giapponese si inchinerà davanti a tutto e cercherà sempre di accompagnare qualsiasi discorso con un cenno del capo e non vi toccherà mai con le mani anche se le userà tantissimo nei suoi discorsi. Mi è capitato di postare un filmato che ho fatto su di un treno dove si vede un incaricato delle ferrovie che saluta e ringrazia con un inchino tutte le persone che scendono dal treno. Tutte le persone, una per una! Inoltre ho sempre visto che gli addetti alla pulizia del treno quando questo arriva in stazione si fermano e si inchinano per salutare il suo arrivo. Significa che tutti gli addetti sono sull’attenti con la testa piegata da quando il treno si presenta in stazione fino a che non si ferma. Altra cosa che mi ha lasciato stupito è il fatto che i controllori che passano nei vari vagoni del treno ogni volta che passano da una carrozza all’altra, si girano verso i passeggeri della carrozza che stanno lasciando, si inchinano e poi si girano per uscire. Se passano dieci volte per dieci volte, si girano, si inchinano, si rigirano ed escono. E’ inoltre significativo notare che sebbene usino molto le mani per gesticolare, non indirizzeranno mai un dito verso di voi. Altro luogo comune di cui ho verificato la veridicità è la famosa scena di Lost in traslation nella quale Bill Murray resta sconcertato dalla traduzione della sua interprete che, nella scena della registrazione dello spot pubblicitario a Tokyo, dopo aver ascoltato il regista giapponese che parla per qualche minuto in giapponese traduce con un semplice: “With intensity ...”. E’ proprio vero: in Giappone tutti parlano e dicono tante cose. Se provi a tradurle ….. il tutto si ridurrà a qualche semplice informazione. Ho ascoltato autisti di autobus oppure controllori di treni tenere dei veri e propri comizi in giapponese all’avvicinarsi di una fermata. Ebbene quando si passava alla traduzione in inglese il tutto veniva condensato in una frase del tipo: “stiamo arrivando nella stazione di XXXX. Non dimenticate i vostri bagagli”. Semplicemente comico!
Inoltre ho fatto un’altra scoperta: quando ho studiato al MIP il metodo Kanban che si riferisce a come viene organizzata la movimentazione dei materiali all’interno di un’industria, mi ero immaginato che tale metodo fosse stato inventato da Toyota e che quell’azienda avesse poi diffuso tale pratica nel mondo. Ho scoperto che non si tratta di un metodo che viene applicato solo nell’azienda automobilistica. Il Giappone è organizzato in questo modo. Tutto segue un flusso preciso e preordinato che fa molto uso di tagliandi, cartoncini da prendere o consegnare. Lo applicano in tutto. Quando mi sono trovato a dover cambiare un po’ di moneta, un addetto al cambio mi ha prima di tutto consegnato un tagliandino con il mio numero sebbene io fossi l’unica persona presente nell’ufficio e poi me lo ha richiesto solo dieci secondi dopo che aveva espletato alcune pratiche di controllo per darmi i miei soldi (pratica che hanno comunque gestito in due persone). Altra cosa che mi ha sorpreso in effetti è proprio questa incredibile burocrazia che utilizzano dappertutto. Scambi di fogli, timbri a più non posso, innumerevoli controlli incrociati: tutto ciò ha l’effetto di ridurre al minimo gli errori ma aumenta sia i tempi che la manodopera richiesta. C’è da dire che questo provoca il fatto che in Giappone praticamente lavorano tutti (forse a fare anche cose inutili) e fino a che se lo possono permettere va bene così. Devo dire che mi aspettavo un paese che facesse molto più uso della tecnologia, ma l’agenzia che ho usato mi ha detto, ad esempio, che fino a qualche anno fa utilizzavano ancora il fax come principale metodo di comunicazione. In ogni caso è un paese che funziona. Hanno una particolare predisposizione all’autolesionismo imponendosi cose che per noi sarebbero inconcepibili: nelle diverse città che ho visitato ho trovato pochissimi cestini. A Tokyo sono praticamente introvabili sebbene sia una città abitata da ben dodici milioni di persone, ma ho contato in dieci giorni non più di tre cicche per terra e nessuna cartaccia anche nei vicoli meno trafficati. Questo significa che ognuno si preoccupa per proprio conto dell’immondizia che produce: semplicemente se la portano a casa. Se non l’avessi sentito con le mie orecchie non ci avrei creduto e l’avrei etichettata come la solita barzelletta. Quando abbiamo visitato il museo a Nara abbiamo visto un custode che avvisava un turista che non poteva accedere alle sale perché aveva una lattina di una bibita. Alla domanda su come avrebbe potuto liberarsene gli è stato detto – senza ridere – che avrebbe trovato un cestino nella stazione ferroviaria distante, appena J, due chilometri.
In ogni caso un paese bellissimo per tanti aspetti. Visitare la casa di un samurai e passare qualche minuto nel suo giardino ed immedesimarsi nelle vesti del proprietario quando passava lì i suoi pomeriggi nella pace assoluta che poteva esserci nel 1600, ti fa capire come mai quel popolo desse priorità alle esigenze dello spirito più che a quelle del corpo.
Portati all’autolesionismo dicevo. E’ tipico vedere la notte il salaryman (viene chiamato così) che esce dall’ufficio dove ha passato le sue dodici e più ore di lavoro. Forse, per quello che ho detto prima, non saranno state ore tutte proficue: ho l’impressione che la produttività sia un parametro non tenuto in gran conto in Giappone, però è stato lì praticamente tutto il giorno e ci ritornerà sicuramente il giorno dopo di buon ora. E’ il motivo per cui la maggior parte dei mariti non gode di nessuna vita familiare, mangia spesso fuori casa e non vede mai i propri figli.
E’ un paese così.
Sayonara Giappone.

PS: per chi volesse vedere un piccolo estratto delle foto (ne abbiamo più di 2.500) può cliccare qui

giovedì 7 maggio 2015

Voglio fare il giornalista (... ma non ne sono capace)


Quando andavo a scuola non sono mai stato bravo in italiano. Ricevere le correzioni dei compiti era una vera e propria sofferenza. I voti del Prof. Credentino al liceo erano famosi per la loro esattezza, nel senso che anche un più o un meno faceva la sua differenza. Non so se si trattasse di un compito d’italiano oppure di latino ma ricordo il voto che mi fu dato: 1- - (uno memo meno).
Insomma non avevo certo la dote dello scrittore. Forse sarà stato questo che mi ha spinto a cercare un modo per migliorare le mie capacità narrative. Posso dire di averci messo impegno. Il sito di Anobii su cui annoto ogni mia nuova lettura è una chiara testimonianza di quanto sto dicendo. 241 libri letti dal 2010 a oggi per un totale di più di 65.000 pagine. Niente male considerando che quando avevo diciotto anni leggevo giusto L’Intrepido e poco altro. Farsi catturare dal fascino della lettura è stato un modo per rispondere a una mia lacuna che risultava in linea con il mio modo di essere: molti mi definiscono un introverso.

Romanzi, soprattutto, ma anche gialli, biografie, libri di management, saggi, libri di storia e di economia. La curiosità che mi suscita una bella copertina mi spinge a impossessarmi del contenuto del libro e una volta che questo ha catturato la mia attenzione mi risulta impossibile staccarmici fino a quando non ho terminato l’ultima pagina.  C’è da dire che questa curiosità ha un costo. A parte quello reale, visto che una discreta parte del mio budget di spesa personale è devoluta alla voce “Libri”, c’è anche un costo fisico. Quando inizio un libro, non riesco a lasciarlo a metà anche se quel libro non mi piace e faccio una fatica incredibile ad avanzare nella lettura: ciononostante devo arrivare alla fine. Può capitare quindi di leggere a volte “in apnea”, cercando solo di arrivare alla fine senza il gusto di capire, e spesso apprezzare, quello che si sta leggendo. Se ne ricava un gran mal di testa ma non riesco a farne a meno. Conosco persone che sono capaci di buttar via libri a metà. Ho letto che Francesco Piccolo ha buttato dalla finestra On the road di Kerouac anche se ha continuato a dire che l’aveva trovato interessante perché all’epoca faceva figo dire così (l’ho letto anch’io è mi ci trovo abbastanza d’accordo … sul fatto di buttarlo dalla finestra). Un po’ ammiro queste persone, anche perché reputo che sia assolutamente inutile leggere un libro che non capisci e di cui non ti rimarrà nulla in testa. Io sono fatto di altra pasta. E quindi leggo fino alla fine.

Nel tempo la voglia di leggere si è trasformata e mi ha portato a sperimentare sempre più le mie abilità letterarie. Il mio lavoro mi ha accompagnato in questo percorso. Quando sono diventato Marketing Manager l’opportunità di dover preparare dei testi che potevano anche essere letti da tante persone mi ha posto qualche buona occasione per verificare le mie potenzialità. Ricordo i miei primi scritti che risultavano terribilmente arzigogolati e difficili da leggere, pieni di incidentali e frasi contorte. Non posso dire di aver imparato: i miei scritti risultano ancora arzigogolati, pieni di frasi incidentali e con frasi che necessitano di essere lette più volte per essere capite. Però un po’ sono migliorate e devo confessare che a volte mi piace leggermi.  Probabilmente sarà solo questione di narcisismo ma mi capita di ricevere qualche compimento per quello che scrivo. Tanto male non deve quindi essere oppure chi mi fa i complimenti è solo un caro amico che mi vuole molto bene. Il mio lavoro è stato comunque solo un pretesto perché a quello è seguita la voglia di inviare qualche post su Facebook (con molta parsimonia) per poi arrivare ad aprire il mio blog. Nulla di patologico in ogni caso in quanto la mia media di pubblicazione di nuovi post è molto bassa. Scrivo quando mi piace dire qualcosa di nuovo. Se qualcuno lo leggerà ne sono solo felice. Ultimamente ho comunque fatto un altro passo importante. Da qualche mese collaboro con una rivista – si tratta di una rivista di settore che scrive notizie in ambito IT – che ha avuto fiducia nel sottoscritto e mi concede ogni tanto di poter pubblicare qualche articolo su tematiche che riguardano il marketing oppure che parlino di strategia. ICT4Trade è il nome della testata e sono arrivato a (quasi) tre articoli pubblicati. Il primo ha addirittura trovato posto sulla rivista cartacea e a breve verrà anche pubblicato sul web. Un articolo un po’ tecnico lo potete trovare qui: si parla di Analytics. Mi piace, ne sono contento. Quasi da farmi gridare: voglio fare il giornalista (….. e non ne sono capace, ma questo non ditelo a nessuno).

martedì 28 aprile 2015

Il mio amico Servillo

Quando ho iniziato a frequentare la prima classe del liceo scientifico di Afragola (non aveva neanche un nome quella scuola) ho conosciuto chi sarebbe diventato il mio compagno di banco per i successivi cinque anni. A parte un piccolo periodo durante il quinto anno, poco prima della fine della nostra esperienza scolastica, in cui ci siamo un po’ persi di vista, posso dire che ogni giorno della mia adolescenza l’ho condivisa con lui. Incluse le domeniche in cui con altri amici, tutti maschi, passavamo i pomeriggi a ciondolare per il corso di Afragola a farci le famose “vasche” che consistevano nel passeggiare parecchie volte per un’unica strada percorrendo lo stesso tratto più e più volte proprio come un abile nuotatore all’interno della piscina, senza l’acqua però. Una sorta di gara di mezzofondo.
Sant'Antonio Basilica di Afragola
Quando l’ho conosciuto abitava come me a Casoria, cittadina dell’hinterland napoletano che all’epoca contava già diverse decine di migliaia di abitanti, ben più grande di tante città di provincia italiane e oggi ormai totalmente assorbita in una periferia metropolitana che l’ha quasi fatta diventare un tutt’uno con la bella, quella si, città di Napoli.
Casoria non era e non è famosa per essere una bella cittadina, come ne esistono tante sparse sul territorio italiano. Casoria era un paesotto di qualche migliaio di persone che negli anni sessanta, quando i mei genitori hanno deciso di trasferirsi lì da Napoli, ha conosciuto una vera e propria esplosione demografica accompagnata da una proliferazione di piccole e medie aziende che avevano portato un certo benessere sconosciuto in quei luoghi. Dopo il boom però la situazione è totalmente cambiata. Le industrie sono a poco a poco scomparse e quello che all’epoca si concedeva, ovvero la creazione di quartieri dormitorio con poche strutture pubbliche (non esisteva neanche una scuola superiore o un teatro) in cambio di un benessere (lo stadio comunale, le associazioni culturali che fiorivano, la piscina con i campi da tennis, la creazione di una borghesia che si poteva permettere una vita mediamente agiata - niente di eccezionale - ma se non altro le famiglie non erano avvilite dalla difficoltà del vivere e dall’incertezza del futuro), le si è ritorto contro lasciando, quando il benessere è scomparso, solo un gran senso di desolazione.
 
Ma non era di Casoria che volevo parlare. Ho parlato di Casoria solo perché il mio amico ci abitava come me quando ci siamo conosciuti. L’anno dopo si è trasferito ad Afragola, paese di ben altra tradizione, in cui erano nati i suoi genitori e certamente più provinciale rispetto all’urbanizzata Casoria e di cui il mio amico mi ha sempre decantato le lodi.
Il mio amico Servillo ha rappresentato per me il modello di vita di quegli anni. Ogni cosa che facevo all’epoca l’ho spesso intrapresa cercando di imitare qualcosa che lui aveva già fatto. Al mio amico Servillo i suoi genitori avevano regalato un Caballero 50 e quella moto ha rappresentato la maggior parte dei miei sogni di quegli anni. I miei genitori sono stati però inflessibili e non mi hanno mai concesso di possederne una. Non era solo una questione di moto. Lui aveva stile e ho sempre cercato di copiarglielo. Il mio amico Servillo aveva quella parlata napoletana aristocratica che ho sempre tentato di imitare non credo con molta fortuna. Hai presente quando senti parlare qualcuno e dici: questo è napoletano! Ma è quel napoletano che si ascolta con piacere, quella parlata di cui apprezzi la musicalità e che non è mai volgare, sguaiata. Dal mio amico Servillo ho copiato il primo Loden blu, gli stivaletti neri comprati da Paskal (un negozio di Via dei Mille che all’epoca andava per la maggiore) i jeans Levi’s 501 quelli con la targhetta rossa, gli occhiali Lozza. Solo in una cosa ho cercato di non imitarlo. Nei suoi risultati scolastici. Il mio amico Servillo non era quella che si dice una cima a scuola. Anzi, a dir la verità, la motivazione per cui siamo diventati amici è stata proprio perché lui voleva studiare con me sperando in questo modo di migliorare i suoi voti (ci speravano anche i suoi genitori). Non sono stato un buon insegnante perché, anche se non ha mai perso un anno, ogni Settembre si trovava a dover riparare almeno un paio di materie. Invece di insegnare io a lui qualcosa alla fine è successo che lui ha insegnato molte cose a me. Chissà se questo lo sa. In ogni caso è ancora un mio grande amico e, anche se viviamo a più di ottocento chilometri di distanza, è sempre un piacere quando lo sento e meglio ancora quando riusciamo a d incontrarci.
 
E’ successo poco tempo fa e la cosa mi ha riempito di gioia. Ho incontrato Enzo Servillo, è questo il suo nome completo, lo scorso Febbraio alla Caffettiera di Napoli in piazza dei Martiri e ci siano ripromessi che ci rivedremo a breve.
Ci conto.
Qualche giorno fa mi è capitato di conoscere un altro afragolese di nome Servillo che è anche più famoso di Enzo. Toni, è questo il nome dell’altro Servillo, è un grandissimo attore da me visto diverse volte a teatro e di cui ho apprezzato la bravura nella stupenda interpretazione di Jeppy Gambardella ne La Grande Bellezza consentendo al film di vincere un premio Oscar. E’ stato un piacere scambiare un po’ di chiacchiere con lui e ricordare il fatto che nei lontani anni settanta ho avuto modo di vedere una sua messa in scena de La Norma. Confesso che me lo ricordo proprio perché avevo notato che la regia era di un certo Servillo e quel cognome me lo ero ricordato proprio a causa del mio amico Enzo.
Grande attore Toni e splendida persona dal sorriso affascinante, ma il mio modello è ancora il mio amico Enzo.

martedì 24 febbraio 2015

Ho conosciuto Gianluca Spina

Ho conosciuto Gianluca Spina
Ho conosciuto Gianluca Spina la mattina in cui, insieme ad una trentina di alunni, che poi sono tutti diventati miei amici, iniziavo il mio corso al 1° EMBA ICT presso il MIP, la Business School del Politecnico di Milano.
Abbiamo avuto da quel giorno diverse occasioni di incontro anche dopo che era diventato il Presidente della Scuola soprattutto per temi che riguardavano i rapporti del MIP con l'associazione degli Alumni. Associazione nata soprattutto grazie alla tenacia ed alla volontà di un altro Gianluca (Ferranti), mio grande amico.
Non ho mai scritto di persone che non sono più tra noi. Sarebbe sempre meglio scrivere e parlare di persone con cui puoi confrontarti, con cui puoi discutere.
Mi chiedo quindi: perché parlarne?
Il primo motivo è lo sconvolgimento che la notizia mi ha suscitato. Quando ho ricevuto l'SMS che me la annunciava, ho istantaneamente sperato che si trattasse di un'altra persona. Scelta un po' egoista, visto che si parla sempre di una morte. Purtroppo altri messaggi mi hanno confermato che si parlava proprio di lui e il comunicato del MIP ha definitivamente eliminato ogni dubbio.
Ne parlo perché ricordo le nostre discussioni e mi viene in mente quella determinazione e quella chiarezza nella definizione delle proprie idee che non lasciava dubbi alle loro interpretazioni. E' una cosa che ho apprezzato. Posso quindi dire che qualche volta non ero d'accordo, ma non posso dire che Gianluca non ci avesse sempre chiarito il perché delle sue scelte.
Gianluca Spina presenzia la Winter Conference di AlumiMIP
del 2009 con il Prof. Tomaso Padoa Schioppa
Ne parlo perché Gianluca Spina per me rappresenta il MIP. Ricordo le occasioni in cui l'ho visto al mio fianco in qualche evento che abbiamo organizzato per conto di AlumniMIP e il piacere che provava quando parlavamo dei risultati delle nostre regate dove abbiamo fatto sventolare la bandiera della nostra Scuola su qualche podio internazionale.
Non avrei mai immaginato che il suo spirito di competizione, che per certi versi ne faceva anche un uomo sportivo, ne determinasse la sua fine.
Ne sono sconvolto e ne parlo.
Ne parlo perché per me il MIP rappresenta un tassello importante delle mia vita e Gianluca ne era un pezzo importante.
Ricordo al Christmas Party  del 2013 quando mi disse : "Paolo, tu ci sei?..."
Risposi senza neanche sapere per cosa.
"Certo che ci sono Gianluca" gli dissi e immagino, ora, che si trattasse di qualcosa a cui stava pensando.
Chissà quanti altri progetti, quante idee sono rimaste lì senza poter mai più vedere la luce.
Tutte coperte da un manto di neve assassina.

Ricorderò sempre quelle parole.

martedì 24 giugno 2014

Sono proprio un troglodita


Sono un ingegnere elettronico, laureatosi con un piano di studio d’indirizzo informatico. Mi sono sempre interessato di sviluppo software che è stato il mio primo impegno professionale e un po’ anche la mia passione. Sviluppare algoritmi che riuscivano a risolvere problemi di logica anche complicati, è sempre stato il mio pallino. Poi è arrivato il marketing ed anche quella è stata una mia vocazione. Il mondo dell’informatica applicato alla comunicazione è quindi un campo in cui dovrei assolutamente sentirmi a mio agio.
Eppure per certe cose sono rimasto un troglodita. Devo dirlo e ancor di più in questo giorno che festeggio il mio compleanno.
Non è che mi dia fastidio – in quel caso sarei oltre che antipatico anche maleducato – ricevere gli auguri su Facebook o sistemi simili, ma quando succede non salto di gioia.
E’ una situazione un po’ al limite: la prima sensazione che mi procura un messaggino su FB che dica “Happy birthday” è di piacere. Mi dico: che carino, Tizio che si è ricordato di me. Subito dopo penso: certo che una mail un po’ più personalizzata, anche una cosa che mi dica “come sei diventato vecchio….”, forse mi avrebbe fatto più piacere.
 
Qualcuno oggi comunque l’ha fatto. Amici che mi hanno chiamato al telefono per avere un contatto personale, chi mi ha scritto un messaggino in cui si capisce che …. si è un po’impegnato (:-)), chi ha voluto farmi gli auguri di persona. Devo ammettere che in questo caso la soddisfazione è stata massima.
Ecco: sono rimasto un troglodita. Apprezzo molto di più il contatto diretto che quello telematico.
Sono convinto – e questo è il dissidio che si combatte dentro la mia mente – che si tratti solo del mio non volermi adeguare a un mondo che cambia. Un messaggio di WhatsApp per molti è concepito come una conversazione al bar davanti ad un caffè. Un post su Facebook è come origliare all’orecchio del destinatario. Un SMS è come scrivergli una lettera con tanto di pergamena e penna stilografica. Sono di un’altra epoca e, come dice Baricco nel suo libro “I barbari”, forse si tratta solo di un mio limite, di un problema di adeguamento. Il mondo sta cambiando ed io non me ne accorgo. E forse molte persone troveranno questo post irriguardoso e scostumato. Ripeto: si tratta solo di un mio limite.
Dopotutto ho detto che oggi è il mio compleanno, ma la cosa che determina la differenza è che gli anni sono cinquantaquattro. Non proprio briciole, per dirla tutta.
 
Un carissimo saluto a tutti quelli che oggi si sono ricordati di me. Apprezzo tantissimo i vostri messaggi verbali, telefonici, via mail, via Facebook, via Linkedin. Quello che voglio dirvi, e sono sicuro che, se mi conoscete, sapete che sto dicendo la verità, è che vi amo tutti. Sono molto orgoglioso di avere tante persone, io li chiamo amici (ma non di Facebook, ma amici veri) che oggi mi hanno tenuto, anche se solo per 5 secondi, nei loro pensieri. 
Insomma sarà che oltre che antico sono anche un po’ narcisista, vedere il mio cellulare che si illumina e mi riporta l’ultimo aggiornamento di Facebook….. mi fa sempre battere un po’ il cuore.
 
Tanti auguri a tutti.
 

PS: ho appena aperto la mia pagina di Facebook e trovo tantissimi nomi che mi piacciono e che si sono uniti alla lista degli "scrittori di auguri". Ne sono lusingato e mi verrebbe proprio di buttar via questo post.... ma ormai l'ho scritto. :-)

 

sabato 22 febbraio 2014

LA RICETTA DI HARVARD PER REALIZZARE LA NOSTRA STATEGIA E RISPONDERE ALLA DOMANDA DI TOTO’



Non basta una grande idea per avere successo. La storia ci insegna che sono tantissime quelle naufragate nella loro messa in opera. In termini tecnici si dice che si può avere un progetto interessante, un’idea sulla strategia da perseguire, ma se si difetta nell’execution non si ha alcuna speranza. Una buona execution è frutto di diversi fattori:

  • il contesto in cui ci stiamo muovendo dettato dal momento economico, politico, sociale;
  • la competenza specifica (è un po’ difficile realizzare qualcosa di cui non si conosce nulla o dove esiste tanta gente che ne sa molto più di te);
  • la fortuna di trovarsi al momento giusto al posto giusto (la citazione in un articolo, essere ospite di una trasmissione televisiva dove si parla dell’argomento e dalla quale esci come l’esperto mondiale della tematica, l’incontro in ascensore con quello che si rileverà essere il tuo finanziatore).
In ogni caso per avere successo bisogna sapere cosa si vuol fare. Non si può iniziare un progetto senza pianificare con cura il cammino che deve portarci al risultato cercato.
Un ottimo strumento, che ho anche qualche volta utilizzato per progetti di semplice impatto, è quello di definire una Mappa Strategica su cui eventualmente implementare una  Balanced Scorecard.
Robert  Kaplan e David Norton, Professori della Harvard Business School con l’articolo «The Balanced Scorecard - Measures that Drive Performance» hanno proposto un nuovo approccio per misurare le performance aziendali. L’aspetto rivoluzionario sta nel prendere in considerazione oltre agli aspetti puramente economici, che normalmente danno informazioni quando un evento si è già verificato e ormai è troppo tardi per porvi rimedio, anche altre prospettive fondamentali alla corretta attuazione di una strategia.
Come definire una Mappa Strategica per il proprio progetto
Bisogna definire le azioni che s’intendono attuare sotto le 4 prospettive.
Prospettiva dell’apprendimento:
si considerano tutte le attività riguardanti le risorse umane coinvolte nel progetto
Prospettiva dei processi:
si pianificano tutte le attività che riguardano l’organizzazione del lavoro
Prospettiva del Cliente:
si progettano le azioni che coinvolgono direttamente le attività fatte nei confronti dei Clienti
Prospettiva economica:
si disegnano le attività concernenti argomenti di natura e impatto prettamente economico
Supponiamo che un’azienda persegua l’obiettivo di aumentare i propri ricavi e che voglia pianificare come arrivare a questo risultato.
Potrà identificare (secondo la prospettiva dell’apprendimento) che è necessario effettuare del coaching ad un dirigente per far in modo che sia più in linea con i compiti affidatigli , oppure effettuare delle azioni di coinvolgimento di tutto il personale, oppure effettuare specifici corsi di addestramento per un particolare settore aziendale. Da qui si potrebbe passare, nell’ottica dei processi, ad identificare come necessario l’utilizzo di un nuovo CRM e così via.
Questo fino ad arrivare all’obiettivo, e quindi alla stesura completa, della propria Mappa Strategica.
Si potrebbe arrivare quindi a un disegno del tipo di quello sotto riportato.



La definizione di una Balanced Scorecard, che potrebbe essere argomento di un nuovo articolo, definisce le variabili (driver) che possano servire a verificare l’attuazione della strategia.
Se si è immaginato di incrementare il numero di eventi marketing, il driver potrà essere proprio il numero di eventi organizzati oppure il numero di partecipanti a questi eventi e si potrà controllare come questo driver si comporta nel tempo sapendo che, qualora l’obiettivo non venisse perseguito relativamente a questa attività, sarà molto probabile che le azioni che da questa dipendono avranno grossa difficoltà a realizzarsi.
E’ ovvio che la pianificazione di una strategia da adottare non è il progetto, né che un’ottima pianificazione è necessaria al suo successo, ma sapere come muoversi e studiare prima quali debbano essere i passi per arrivare all’obiettivo che ci si è posti è di estremo aiuto.
E’ quello che cerco di fare sempre anche nel mio modo di lavorare. So che un lavoro del genere aiuta a chiarire i dubbi prima che questi si presentino in corso d’opera.

lunedì 30 dicembre 2013

Responsablità. che vuol dire?

Una volta si poteva dire, come faceva  il grande Totò, che “uno poi si butta a sinistra” quando si era testimoni di qualche scena di rituale sperpero del bene comune o di tipico abuso di poter da parte delle “autorità costituite” o di più semplice sopruso. Oggi forse non si può avere neanche questa soddisfazione. Chi potrebbe dire una cosa del genere con la coscienza di aver detto una cosa giusta e sensata. La sinistra è veramente immune da soprusi o inefficienze? Sarà che aveva forse proprio ragione lui, parlo sempre di Totò, che lo diceva per farsi e per farci fare una risata. Tutto per non piangere.
Vorrei proprio trovare questo motivo. Quello per non piangere. Ma mi risulta molto difficile. Non perché abbia bisogno di piangere, né mi va di farlo. E’ perché, a differenza del gran ciarlare che sento in giro, voglio parlare di RESPONSABILITA’ e ovviamente voglio farlo parlando di me stesso.
RESPONSABILITA’ è una parola di cui, credo, si sia perso il significato. Nessuno sa più cosa voglia dire oppure molti ne hanno fatta una traduzione personale (molto personale) per cui sembra che ci sia tanta gente che cerca responsabilità negli altri ma non si è mai posto il problema di capire quale è la propria.
Forse sarà la serata “storta” (ho appena cancellato dai miei amici di Facebook una persona di cui ho letto l’ennesimo post “attacca-politici” su cui si scaricano tutti i nostri guai: sembra quasi che sia una catarsi comune: se lo schifo è lì vuol dire che non sono io il problema). Forse ne sono stufo. Sicuramente ne sono disgustato. Per cui cerco di prendere il problema con un approccio diverso.
E visto che siamo praticamente a fine anno ci sta bene fare un resoconto di come quest’anno è passato.
E’ stato per molti aspetti un anno terribile. La società per cui lavoravo è stata messa in liquidazione e con uno di quei giochetti molto diffusi in questi ultimi anni, è praticamente “rinata” sotto altra veste in un vestito molto “più snello” . Il paragone si addice visto che nel “passaggio” sono state lasciate una ottantina di persone (ragazzi, ragazze, padri e madri di famiglie) a casa e anche quelli che sono passati nella “nuova” società hanno dovuto accettare condizioni capestro (io, ad esempio, non sono più un dirigente). Un solo pensiero a tanti cari amici che non sono più miei colleghi e con i quali ho condiviso progetti, paure, soddisfazioni e che sicuramente stanno vivendo situazioni molto più drammatiche della mia (vi penso).
Tante altre idee che pensavo di portare avanti hanno subito un drastico stop o, comunque, sono ancora lì che vagano nella mia testa senza che se ne possa vedere il modo di realizzarle.
Colpa degli altri? (dei capi? del governo? dei politici? dei qualunquisti? dei ladri? degli albanesi? delle banche? dell’Europa? della Merkel? o di chi altri?). Forse è colpa mia.
Oppure, diciamola meglio: si tratta di una mia RESPONSABILITA’.
Forse non c’ho creduto a sufficienza, forse mi sono un po’ lasciato andare, forse ho vissuto questo anno con estrema stanchezza, ma anche con rancore, che non mi ha permesso di esprimermi al meglio.
In un Paese dove normalmente quando le cose vanno male è sempre colpa di qualcun altro, mi sembra un bel passo avanti.
Ci sono validi motivi per affrontare il nuovo anno con altro spirito: riconoscendo i propri errori e dandosi da fare per fare in modo di non rifarli.
PS: leggo che quest’anno il Cancro avrà delle grosse soddisfazioni economiche. Peccato che io non creda agli oroscopi.