sabato 5 marzo 2022

La pistola nel cassetto di Cechov

 


Non mi considero un analista sopraffino. La mia conoscenza si limita alla lettura di qualche libro, allo studio di un po’ di articoli di politica economica e temi sociali. Sono però abbastanza presuntuoso da dire che qualche idea - spero indipendente da pregiudizi – sono capace di farmela. In effetti la presunzione appare più nel fatto di pubblicarla perché a molti potrebbe fregar di meno. Ad ogni modo mi va di dirla.

Assisto con sgomento all’evoluzione dei fatti che riguardano l’invasione – di questo si tratta – dell’Ucraina da parte della vicina Russia. Si tratta di un’invasione ed esiste un aggressore e un aggredito. Su questo non ci sono dubbi. Così come non ci sono dubbi sulle giustificazioni addotte per dare un senso a quell’azione. Sono, appunto, giustificazioni dove questo termine bisogna leggerlo nel senso più largo che questa parola sottintende. Dico giustificazioni per dire pretesti.

Detto ciò, mi capita di inorridire quando alle discussioni in TV che parlano di questo evento, si interpellano generali o esperti di tattiche militari. Nel momento in cui la richiesta che viene da tutti noi è quello di trovare il modo di ritornare ad una situazione di pace, a discutere troviamo i generali. Non è che ce l’ho con i militari: loro fanno il loro mestiere e se li invitano ad una discussione mi sembra anche corretto che ci partecipino e dicano la loro.

Trovo però un controsenso, io lo considero un vero e proprio ossimoro, parlare di pace mettendo attorno al tavolo i militari. Mi chiedo se non sia stato proprio questo il motivo per cui si è arrivati alla situazione che stiamo vivendo. Ripeto: non ce l’ho con i militari ma credo che per poter parlare di pace bisognerebbe fare in modo di crearne i presupposti affinché una tale ipotesi possa prendere corpo. Non è con le armi che si possano generare situazioni di pace. Non ho mai creduto alla frase latina che dichiarava “Si vis pacem, para bellum” (se vuoi la pace prepara la guerra). Le armi servono a preparare una guerra. La pace si prepara con atti di pace. Mi chiedo se alla caduta del muro di Berlino sia stato opportuno (qualcuno l’ha trovato anche logico) ipotizzare un’espansione della NATO spingendo i propri confini sempre più ad oriente. Non sarebbe stato più opportuno pensare ad una scomparsa – o almeno ad una riconfigurazione – di quel patto militare che aveva visto dissolversi una delle ragioni per cui era nato? Insomma: forse nel momento in cui sarebbe stato più opportuno attivare azioni di pace si è fatto invece ricorso ancora ad azioni di guerra ed ecco che si parla di impianti missilistici, di basi militari da installare per occupare nuovi territori. Mi chiedo se agendo in questo modo – evitando quindi di aumentare le installazioni belliche - sarebbe venuta a cader la ragione per cui oggi ci troviamo un uomo del secolo scorso a capo di una nazione che parla con termini antichi di imperi ormai inesistenti e di necessità di difendersi da un destino che la storia gli ha già assegnato. Il problema è che questo personaggio fuori dalla storia ha a disposizione armi – parliamo purtroppo sempre di quello – che possono distruggere il mondo. Armi di cui si è man mano approvvigionato anche con la giustificazione che era necessario per quella nazione parlare di riarmo visto che i dintorni dei suoi territori si stavano attrezzando con sistemi di aggressione. Sistemi che trovavano la loro giustificazione non solo perché quell’impero ormai decaduto non aveva comunque deposto completamente le armi.

Insomma: invece di approfittare del momento storico per intraprendere un nuovo modo di intendere il mondo, si è ritenuto opportuno approvvigionarsi di altre armi.

Appunto: l’ossimoro. Parlo di una nuova pace mondiale e chiamo i generali a deciderla. Ma è il caso?

Come diceva Cechov (ops un autore russo, non vorrei essere bannato per questo) se in un romanzo compare una pistola, bisogna che spari. E qui stiamo parlando del romanzo della vita che ci prende un po’ più da vicino.